Un po’ di tempo fa mi è successo di attraversare professionalmente uno di quei momenti in cui ti ritrovi alle prese con una relazione terapeutica un po’ difficile e a tratti insoddisfacente: stai lì a chiederti se i semi che hai messo sono proprio quelli dell’intimità e se l’alleanza terapeutica l’hai annaffiata troppo o troppo poco.
Per intenderci, mi trovavo in uno di quei momenti, in cui sembra che l’intimità, l’alleanza e la relazione siano poco più che concetti, che poco informano il fare terapia e ancora meno hanno a che fare con l’incontro. Insomma, me ne andavo in giro in cerca di ispirazione nel lavoro con un cliente, quando ho sentito Paolo Quattrini dire una frase che io ricordo suonasse all’incirca così: “Non mi importa dell’effetto che faccio, mi importa di fare un effetto”.
Il Tao Te Ching dice:
“Quando lascio andare quello che sono, divento quello che potrei essere. Quando lascio andare quello che ho, ricevo quello che mi serve”.
In qualche modo, quelle parole sono arrivate quando mi servivano: quel “Fare un effetto” mi è rimasto addosso ed ha preso la forma – il senso – del rintracciare e coltivare un terreno nel quale mi sentissi a mio agio, abbastanza a mio agio da permettermi l’esperienza di incontrare intimamente l’altro.
Fare effetto,
lasciare traccia.
Trovare traccia.
Costruire e generare.
Evocare.
Cercare poesia.
Inventare poesia. Contemplare.
Spostare il punto di unione.
Riconfigurare.
Cercare Trovare Inventare
Ispirazione
Inspirazione: fare spazio
E respirare. Camminare.
Come intrufolarsi in un antico palazzo e dare una mano ad aprire finestra dopo finestra.
Camminare e allargare l’orizzonte delle possibilità.
Dunque, che se ne vada il terapeuta, in cerca di poesia. Dalla poesia il terapeuta prende le parole: le parole quando disegnano immagini, le parole che trasformano. Con la poesia il terapeuta cerca senso; va in giro con il cliente a costruire senso, attraverso immagini che lascino traccia nei sensi. E qualcosa accade.
Un buon contatto passa per l’atteggiamento empatico del terapeuta.
L’empatia non si può spiegare: piuttosto, il terapeuta può creare situazioni nelle quali il cliente fa esperienza di un atteggiamento empatico. Allo stesso modo, il terapeuta propone al cliente di sperimentare possibilità per reinventare il senso della propria esistenza, in una direzione che il cliente senta di volta in volta buona per sé.
Porsi con atteggiamento poetico è di grande aiuto, in quanto in genere i clienti con i terapeuti fanno un po’ come i bambini, ossia copiano. Così il cliente può copiare, trovare ispirazione, in quell’atteggiamento poetico nei confronti dell’esistenza.
In genere, l’atteggiamento è leggibile nei comportamenti che una persona mette in atto: il corpo mette in scena, metaforicamente e non, quel che ci succede dentro. In questo modo, se a proposito dell’empatia si è soliti parlare di “orecchio empatico”, quando penso all’atteggiamento poetico, facilmente me lo rappresento nelle mani. Mani poetiche, mani che prendono parole, frasi e storie, mescolano la punteggiatura, smontano la grammatica quotidiana e compongono senso. Un senso buono, da assaggiare con il corpo, per stare sul confine e stare nel contatto.
Se tutto questo è vero per me, allora come faccio io di solito per avventurarmi –paurosamente e coraggiosamente – fuori dai miei confini? In quale modo mi permetto di lasciarmi vedere e di toccare la realtà? Io lo faccio attraverso la scrittura. E la poesia, in particolare.
La poesia è quel posto in cui ho imparato a rifugiarmi quando la vita si faceva spaventevole. Quel posto in cui mi fermo quando voglio andare da qualche parte, come i fiumi carsici che mentre non li vedi vanno lontanissimo. Nella poesia mi riposo, usando le parole per togliere parole. E mi fa senso, come con la pietra quando la scolpisci, che c’ha senso quando togli.
Ecco un segreto, mio: quando uso tante parole, per dire qualcosa, in qualche modo ho già bello che costruito il mio muro, l’ho scavalcato oppure ho trovato la breccia o ci ho scavato sotto un bel tunnel o tutte e tre le cose assieme; e sono già dall’altra parte, da un’altra parte, da qualunque parte. E non mi trovi più.
La poesia si può fare con tantissime parole e, allo stesso tempo, ne bastano pochissime per disegnare un’immagine e trasportare un senso. In terapia può accadere quel che accade un po’ nella vita quotidiana, ci si barcamena tra l’uso di tantissime parole e l’abuso di ingombranti silenzi.
Nel tempo ho sperimentato come la poesia rappresenti il mio modo rassicurante di stare nell’esistenza: giocare a scrivere poesia mi permette di conoscermi e di lasciarmi conoscere, modulando il timore generato da un incontro troppo intimo per me, sul confine del contatto.
La poesia, col tempo, è diventata il mio modo per fare l’esperienza d’esser sconfinata. La poesia è un buon modo per me per allenare l’anima ad inventare alternative. Con la poesia rispondo al mio bisogno di stare intima con me stessa per trovare il mio modo di incontrare l’altro, il cliente, intimamente.
Ho visto colleghi fabbricare esperienze di scrittura trasformativa ed espressione poetica nello spazio terapeutico e non solo (penso al lavoro che Giovanni Porta fa da tempo e che spesso mi ispira). In molte occasioni ho proposto ai clienti quello che funziona con me stessa: prendersi del tempo per stare con se stessi, in un incontro, e scrivere la propria poesia. E poi guardare che cosa si scopre di nuovo di sé e dell’altro e del mondo. Giocando con la poesia capita di fare scoperte senza sentirsi troppo scoperti, del resto è un gioco.
Ecco, io quando gioco con la poesia respiro meglio, come quando alzi la testa e lo sguardo e allarghi le spalle e, mentre lo fai, ti accorgi della differenza.
Fabbricando senso, un senso di me
C’è chi fabbrica poesia
ride sul serio
inventa
giochi da grande
per giorni interi
rompe
il gioco del silenzio
e canta forte
disobbedisce
e cresce.
C’è chi si mette nelle scarpe
di un altro
e parte
cerca il suo nascondino,
l’isola che non c’è
sta ovunque.
Gioca a palla
-prigioniera?- rotola
poi si alza
e sogna.
C’è chi ruba la bandiera
e corre
poi dimentica
le regole e inventa
un altro gioco.
C’è chi fabbrica
arte, da pazzo.
Ovunque
Respiro. E corro, corro forte
corro e rincorro il fiato,
corro e perdo il fiato
faccio rumore
sull’asfalto con i piedi, sui pensieri
coi singhiozzi
per caso
inattesi
insperati. Piove quasi.
Così è. Così lascio
andare. Corro,
ed è come salutare.
Corro
e guardo negli occhi
quegli occhi mille volte
passare per il cuore
ri_cordare.
Corro
e l’alba l’ho consumata col sudore:
adesso
è giorno
e voglio andare.
Buongiorno!
ovunque tu sia andato a camminare.
Allora muoviti!
Fuori da qui
fuori
di me
sassi
a caso passi
per casa
Passi pure la pioggia
ma la noia, no! ché la notte
fa presto
a imbrogliarmi: farfuglia
cose di buio
code di freddo
strizza
l’occhio ruba
il passo
ferma
un turno giro
intorno
poi mi sposto
scarto. E sorpasso.
Monologo al mare
Ricordi dove eravamo
quando eravamo felici?
Sospese, tra un amore grande
e qualche sbaglio.
Indifese.
E il mare
a brontolare
ore ed ore a dare ascolto
a quel che penso
ripenso.
In_difesa
rifletto
riflesso
modo passato
tempo trascorso
Scorro
Acqua
acqua di fiume, tenace
acqua di mare, vorace
scavo
la roccia
bagno la faccia di schizzi
per scherzo
Lascio la testa
prendo il largo
Ti penso
Torno
Presto.
Fare d’amore
Quando te ne sei andata
ho buttato via le chiavi
e le carezze in fondo
al silenzio,
ai miei “io penso”.
Poi sono andata in strada
in cerca di te
ho esplorato come specchio
ogni finestra: gli occhi?
I miei no, non sono i tuoi occhi:
quelli miei vibrano
dentro il buio
e vanno, schegge dall’anima
all’anima. I tuoi,
me li ricordo i tuoi: se ne stavano
perfetti e fermi a fare
quel che c’era da fare.
E poi il naso. Le labbra.
Me lo dicevi tu che c’era
la firma del babbo.
E ridevamo.
Ti ho amata forte
ti ho fatto la corte
con il mondo in tasca,
mentre lasciavi andare
la vita
e coi denti stretti
dicevi i tuoi “no”
pure al sapore del sole.
Ti ho amata coi miei passi
e con le mani; e questo
mi resta: l’amare tenace,
l’amore del fare.
E fare d’amore è lasciare
andare, lo sento ora.
E oggi, mentre vado, dentro
Roma che nevica,
oggi
ti incontro dovunque
e sfilo dai guanti
le carezze.
E ti ascolto da qualche parte.
Cantare.
E io
La carta
la penna
appena disfatta
cancello
la porta
d’accesso e
la matta ritorna
nel mazzo di carte
partita!
un’altra partita!
lascia che giochi
che perda
la sfida
lascia che senta
con la lingua
e le dita
amaro sfuocato
il ricordo
e gustosa la vita.
Fondale, inferno notte
Ne ho abbastanza
di parole, gonfie, strappate, muffa
di quel legno salato. Affoga
nell’acqua che mi porta
la voglia di farmi una vita
come mi pare, un’esistenza
là dove non si muore. Brucia
dentro la pelle incisa, come cuoio
di cinghiate, la banalità di questo male
che mi resta addosso.
Di parole ne ho abbastanza.
Pelle di delfino
Mi faccio il mio coraggio
con le mani
intreccio pazienza e risate
per le notti di vento e impasto
la farina col tempo,
marmellata
di pesche e rabarbaro
Mi lecco
le dita.
Mi muovo,
questa è la mia vita.
Mi muovo e soltanto il mare
sa trovarmi
Mi muovo
e indosso pelle
di delfino
e l’anima si bagna.
Frantumate
le lenzuola, umide
le mani
ingoia ogni traccia
di quei baci, stracci
di passione
sospira
e vattene:
di ogni assenza almeno
val la pena di fabbricar
follia.